Gianfranco Contini «Un anno di letteratura» (1942)

Recensione a Gianfranco Contini, Un anno di letteratura (Firenze, Le Monnier, 1942), «Primato», a. III, n. 8, Roma, aprile 1942, p. 157.

Gianfranco Contini «Un anno di letteratura»

Questo nuovo volume di Contini (Un anno di letteratura, Firenze, Le Monnier, 1942) comprende pagine di critica, pagine di «quasi filologia», due risposte ad inchieste di Primato, e un bel pezzo estravagante su Le Corbusier, discorsivo e morale: raccolta che ha un suo speciale gusto letterario, una sua intenzione di riportare una linea di esigenza privata nella sistemazione dei vari saggi. Sí che la critica serrata ed esclusiva di Esercizi di lettura (1937) si allarga a discussioni culturali, a impliciti consigli, a rivelazioni di Weltanschauung in un’aria di maggiore agio, di umanità piú scoperta: qui, piú che nell’interno delle pagine critiche, appare evidente (e non sembri che con ciò si voglia ridurlo) «il successivo stacco che esiste di certo» fra i due volumi. Piú che nell’interno dei singoli capitoli e nell’impostazione critica rispetto ai testi, c’è nel nuovo libro un affiorare esplicito di interessi non strettamente critici che, senza intaccare affatto il rigore estremo della lettura, mantengono il calore della personalità nei suoi atteggiamenti vitali, nella sua prima aspirazione poetica: «poiché non è affatto antigienico, per chi non intenda pubblicamente iscriversi agli agoni piú specifici di parnaso, considerare la critica ancora non come un genere, ma come una specie di epifenomeno».

Allora balzeranno agli occhi del lettore anche piú chiari i presupposti umani di questa critica che superficialmente appare cosí specializzata, scientifica. Si pensi alla risposta all’inchiesta sull’Università: «Oggi, nell’offerta anacronistica di qualunque fede di laboratorio, di qualunque dogma naturalistico, non sarebbe se non imbecillità: ovunque l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, è il figurino piú inattuale che possa immaginarsi, anche nella scienza». E poi: «È questione d’uomini: di maestri piú che in altra epoca fraterni, e, se fosse lecito dire, e nell’accezione accennata, disperati»: disperati che accennano all’angoscia e alla disperazione teologica kierkegaardiani e barthiani. Questa «disperazione» che giunge cosí fino alla scienza, che ne acquista una liricità ben diversa dalla passione enfatica del positivismo, trova radici, in Contini, nel suo sostrato piú vero, in quella sorta di «furia» che anima, a ben guardare, tutti i suoi scritti e muove il suo arduo modo espressivo al di là di un giuoco raffinato dell’intelligenza, al di là di un trobar clus tecnicistico. Furia che si traduce nel gusto di una «ferinità linguistica antecedente allo stile, nel portare continue prove di vita non classificata nei limiti di qualsiasi razionalismo».

E nell’inchiesta sull’Ermetismo, dove egli tende a fare di questo un momento necessario dell’esperienza, la conclusione precisa una posizione complessa, ricca, ideologicamente piú indirizzata che delimitata (donde le possibilità e i pericoli): «Una comprensione dell’irrazionale che non escluda la nostalgia del giudizio filosofico (una forma, anch’essa, di decisione!) ci sembra una posizione che salvaguardi meglio la radicale libertà dell’anima umana». Non dunque una posizione mistica, ché nel Ricordo di J. Bédier, parlando del razionalismo piú apparente che reale del grande filologo, Contini ci rileva ancora di se stesso: «Noi non amiamo chi ha la viltà di non resistere al puro irrazionale e si lascia voluttuosamente percorrere dalla corrente magnetica: tra l’altro perché finirà a voler provocare la corrente, e diventerà un meccanico o un logicista dell’irrazionale. Ma senza un poco di magnetismo, e di poesia, non si dà neppure scienza: e i temperamenti che ci sono cari sono quelli dialettici che razionalizzano l’irrazionale in una continua vicenda periodica, con i valori mettono ordine nella vita».

Quella furia piú poetica che critica di cui parlavamo (furia che egli sa cosí bene rieccitare anche dove il suo ingegno critico supera ogni facile romanticismo consuetudinario e afferma la massima presenza dell’arte, della tecnica, come quando parla della «furia di esercizio» di Dante nelle sue Rime) insaporisce la sua ricerca di zone preespressive, la sua microtomia al germe di un mondo poetico, si incontra con la fermezza scientifica del filologo nella sua implicita formula critica per cui l’arte è il metodo vitale di una personalità nella sua conoscenza della natura, nella sua concezione della cultura come «dialettica di filologia e di presenza».

Considerazioni provvisorie le nostre, che vogliono solo aiutare a meglio comprendere nella sua difficoltà non arbitraria questo lavoro critico a volte sconcertante per la quantità di riferimenti che presuppone, pieno sempre di deduzioni raccorciate, non interamente spiegate, che richiedono, ben diversamente dalla critica dei veri e propri ermetici, una ricostruzione dell’intelligenza. Ripetiamo: difficoltà, non arbitrio; gusto poetico, congeniale alle origini piú profonde, barbariche della poesia e insieme estremo vigore dell’intelligenza nella costruzione critica.